Dalle fiamme ai flash: come incenerire una seconda volta Notre Dame
Finalmente riapre Notre Dame, la cattedrale più amata del mondo, dopo gli interminabili lavori di restauro a seguito di uno degli incendi più mediatici della storia della comunicazione. Patinata, levigata – messa al lucido come un pomello di ottone – la stampa si è scatenata durante l’inaugurazione. Le luci della ri-scoperta rendevano tutto ancora più allucinato e irreale, nessuno aveva mai visto quella cupa cattedrale così rischiarata da sguardi ammirati e commossi. Tutti sembrano felici, tutto sembra bello. Eppure, ci siamo già dimenticati con quale sadismo voyeurista qualche anno fa si mostrava la sua distruzione? Forse questo enorme sforzo di restauro è bastato a cancellare ogni macchia, perfino quelle della storia?
Distruzione/riparazione: due azioni in conflitto
Ci sono delle buone notizie. Meno male, verrebbe da dire. Sicuramente è molto positiva la scelta di aver optato per un restauro filologico, non dando così occasione a qualche archistar di speculare sul corpo ferito di questa grande architettura per farsi un nome ancora più roboante. Sicuramente ha giocato un ruolo importante il fatto che il monumento è stato commercializzato in tantissimi formati, rendendo la sua silhouette molto riconoscibile e vendibile, un marchio insomma. Se un disastro del genere fosse capitato a un’altra cattedrale mi chiedo, al posto della bella flèche di Viollet le Duc, quale ciminiera ultramoderna avremmo avuto al suo posto. D’altra parte, gli studi di architettura si erano sbizzarriti con proposte parossistiche che mostravano come il campo delle possibilità fosse aperto, e ci si poteva aspettare di tutto. Ora l’incubo sembra terminato. Ci fa sentire bene vedere che è tutto – quasi – bianco e candido, immacolato: il dramma è finito. Ma questa non è la catarsi.
Il piacere che oggi scintilla negli occhi di chi si compiace della ricostruzione di Notre-Dame riflette la stessa scintilla oscura che brillava in quelle stesse persone quando, osservando prima la guglia e poi il tetto divorati dalle fiamme, già fantasticavano, con un malcelato compiacimento, di vederla annientata, come accadde al Padiglione d’oro di Kyoto. Il fatto che abbiamo girato un intero film sull’incendio testimonia questo interesse morboso. L’identificazione della cattedrale con la figura della Madonna aiuta a personificare, ed empatizzare, con il monumento, trattandolo come una pseudo-persona, una madre protettrice. L’empatia, tuttavia, non corrisponde alla sensibilità, in quanto la prima consente di godere sia del bene e del male, mentre la seconda misura l’appropriatezza delle nostre reazioni in base al contesto. Dunque, questa trasfigurazione “empatica” comporta anche delle conseguenze indesiderate, per cui si può godere dei suoi successi come delle sue disfatte senza posa, in modo esagerato. Questo meccanismo lo vediamo limpidamente sui social, con personaggi mediatici che vivono un’altalena di trionfi e fallimenti, dove le mezze misure corrispondono al silenzio, alla sparizione.
Quindi, davanti a questa moltitudine reazioni scomposte – che nascondono storie, lavori, soldi – è normale essere un po’ confusi, ragionare di “pancia”, seguendo la massa. Dov’è – invece – l’identità del monumento? Che ha una sua storia, una sua dignità al di là delle reazioni della gente che, sicuramente, aiutano a rendere questo vivo nell’immaginario collettivo, ma rischiano anche di renderlo prigioniero di un’immagine mentale che non risponde alla realtà. Per cui fa bene vedere il monumento immutabile, tornato al suo stato passato, ma al contempo perfezionato, perché ci toglie dall’impaccio di pensare che la sua storia, la sua sopravvivenza, sia nostra responsabilità. Tanto ci pensano le generose donazioni dei miliardari, e gli interessi economici e politici legati al business della cultura. Possiamo stupirci, dunque, che in questo scenario Notre Dame finisca per somigliare pericolosamente a un gigantesco souvenir di una Disneyland neo-gotica?
Un sogno irreale… a danno di un patrimonio troppo reale
Ci siamo dimenticati del cosiddetto “caso Chartres”, con la cattedrale restaurata in modo così violento e radicale che qualcuno – a lavori ultimati – l’ha paragonata a una moschea di Dubai? La celebre Madonna nera, ora ripulita, è diventata albina. Le pitture che decoravano le arcate sono state ripristinate, ma ora sembrano degli stencil fatti quasi per gioco, per il puro gusto di contraddire l’immagine di un gotico buio e cupo. Ora, questa storia ha fatto scalpore, ma è rimasta una questione riservata quasi esclusivamente agli “addetti ai lavori”, non ha impattato sull’opinione pubblica. Ma la sopravvivenza dei monumenti, oggigiorno, dipende molto dall’interesse collettivo. Mentre faccio questa affermazione penso a Bologna, alla Torre della Garisenda. Si è scelto di restaurare in maniera filologica, con un enorme investimento pubblico, la torre – una costruzione molto semplice e “nuda”, va detto – quando si esita a ricostruire o salvare torri, campanili e strutture storiche, molto decorate e particolareggiate, che sono state distrutte o duramente colpite dal terremoto in Emilia del 2012. Esistono monumenti di seria A e serie B, questo è cinico, ma evidente, nel panorama contemporaneo. Meno trasparente, invece, il fatto che siamo propensi a restaurare simboli attraverso costruzioni in pietra, marmo e mattoni non inseguendo un ideale astratto, ma perseguendo una serie di interessi concreti che richiamano il fatto che la cultura è diventata un parco d’intrattenimento per turisti, con un’enclave all’interno di esso dedicato ai tecnici e agli eruditi che si compiacciono della loro piccola isola felice.
Non penso che la soluzione sia rassegnarsi alla devastazione, a perdere per sempre la bellezza perché “oramai è troppo tardi”, additando qualsiasi tentativo di ricostruzione come posticcio e kitsch. Credo che – innanzitutto – bisogna essere più sensibili e meno empatici davanti la cultura, ma anche più sensibili e meno arroccati nella propria posizione colta e aristocratica, aperti a un dialogo plurale capace di mettere in discussione sia la distruzione che la rinascita della nostra storia e del nostro patrimonio, e di noi con essa.